Trentaquattro anni dopo, non c’è ancora verità sulla strage di piazza della Loggia. Ma qualcosa si muove. È notizia di giovedì il rinvio a giudizio di sei persone coinvolte nella strage che fece otto morti e un centinaio di feriti: Pino Rauti, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte, Carlo Maria Maggi, Francesco Delfino e Giovanni Maifredi.
Il 28 maggio del 1974 una bomba esplose a Brescia, in piazza della Loggia, dove antifascisti manifestavano contro l’escalation di violenza degli anni di piombo. Se inizialmente le indagini si concentrano su piccoli esponenti della destra bresciana, poi il filone dell’inchiesta si sposta su quella comunemente chiamata strategia della tensione: ovvero, per usare le parole dell’ex sindaco di Brescia, oggi parlamentare Pd, Paolo Corsini, «individua nella strage la regia e la mano degli ambienti della destra radicale eversiva in collegamento con apparati dello Stato».
È qui che spunta il nome di Rauti, fondatore prima del Msi, poi di Ordine Nuovo, oggi suocero del sindaco di Roma Gianni Alemanno. Insieme a lui, i suoi fedelissimi militanti: Delfo Zorzi, che è da allora latitante e ha l’ultimo domicilio conosciuto in Giappone, Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. Tutti iscritti all’organizzazione, fortemente sospettata di organizzare attentati e stragi, che fu sciolta nel 1973 per ricostituzione del partito nazionale fascista. Insieme a loro, tra i rinviati a giudizio, ci sono l'ex generale dei carabinieri Francesco Delfino e uno dei suoi "infiltrati" in Ordine Nuovo, Giovanni Maifredi, autista del ministro dell'Interno dell'epoca, Paolo Emilio Taviani.
Allo sviluppo dell’inchiesta, hanno contributo i racconti forniti dallo stesso Tramonte e da Carlo Digilio, altro esponente di Ordine Nuovo, ma anche conosciuto dalla Cia con il nome in codice Erodono. I nomi di Digilio e di Delfo Zorzi ritornano anche nell’inchiesta sull’attentato a Milano, in piazza Fontana. A piazza Loggia, Zorzi, Maggi, Mainfredi avrebbero procurato e custodito la bomba e organizzato l’attentato nel suo complesso. Rauti ne sarebbe stato più che informato.
Il nome del generale Delfino, uomo dei servizi segreti, ma a stretto contatto anche con la ‘ndrangheta, è tornato recentemente agli onori delle cronache per il sequestro Soffiantini, l’imprenditore bresciano rapito nel 1997: Delfino prima estorse 800 milioni di lire alla famiglia, per pagare un informatore che avrebbe dovuto aiutarli nella liberazione, poi fu condannato in via definitiva per truffa aggravata.
Fonte - L'Unità
giovedì 15 maggio 2008
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Rinviato a giudizio Pino Rauti per la strage di Piazza della Loggia
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